Trenta anni or sono il King Lear dei produttori musicali italiani che rispondeva al nome pubblico di Renzo Fantini, vide del buono in un giovinastro venuto su anche lui tra la Via Emilia e il West, nei gironi infernali dei bar e dei motel ad astronomia minima, senz’altro obbedire che ai comandamenti della strada.
Infebbrato da Tom Waits, Tondelli, Modì e da ogni alcol che gli insegnasse la sete, il giovinastro in questione affrontava a mani nude la sproporzione tra vissuto e immaginato su un Fender Rhodes zebrato, cantando testi tatuati dentro le palpebre. Negli anni a venire avrebbe coniato, uno dopo l’altro, dei dischi di oro zecchino, ma per ora, è il 1990, si trattava di mettere su vinile un pugno di canzoni pre-biografiche, alcuni fattacci amorosi che stavano per capitargli e tutta un’epopea di regine stanche delle otto ore e romanticoni poveri come i ragni. King Lear conosceva bene “il giochino” e agì da par suo: nel mese dei vacanzieri prenotò uno studio prestigioso e puntellò l’esordiente con una Guascogna di nobiluomini rotti a ogni gentilezza.
Il risultato fu quel capolavoro di trepidazione e sincerità che conosciamo con il titolo monkiano di “All’una e trentacinque circa”. Dopodiché Vinicio ha avuto la carriera che ha avuto, incommensurabile, ma quegli anni, quelle canzoni, quel disco, li ha sempre portati con sé in una confezione salva-freschezza che ha del miracoloso.
E ora è qui, a JazzMi, a suonarcele di santa ragione, con gli stessi ingredienti, la stessa giovinezza piena si speranza, castelli di sabbia che sono durati.